Rosario Angelo Livatino (3 ottobre 1952-21 settembre 1990) […] giudice di Canicattì venuto in odio, per la sua coerenza cristiana e professionale, agli uomini delle mafie che dominavano nel territorio siciliano negli anni Ottanta del secolo scorso, fu eliminato tragicamente da giovani sicari al soldo dei capi delle Stidde e di Cosa nostra. «Picciotti, che cosa vi ho fatto?», riuscì a domandare, prima che il suo viso da Gesù bambino, come lo definì un suo amico, fosse deturpato dai proiettili. Erano le parole di un profeta morente, che dava voce alla lamentazione di un giusto che sapeva di non meritare quella morte ingiusta. Parole che gridavano contro gli Erodi del nostro tempo, quelli che, non guardando in faccia all’innocenza, arruolano perfino gli adolescenti per farli diventare killer spietati in missioni di morte. Grido di dolore e al tempo stesso di verità, che con la sua forza annienta gli eserciti mafiosi, svelando delle mafie in ogni forma l’intrinseca negazione del Vangelo, a dispetto della secolare ostentazione di santini, di statue sacre costrette ad inchini irriguardosi, di religiosità sbandierata quanto negata. Per questo, ripensando alla figura del magistrato siciliano, ribadisco quanto espressi già nella Sala Clementina il 29 novembre 2019: «Livatino è un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l’attualità delle sue riflessioni []. L’attualità di Rosario Livatino è sorprendente, perché coglie i segni di quel che sarebbe emerso con maggiore evidenza nei decenni seguenti, non soltanto in Italia, cioè la giustificazione dello sconfinamento del giudice in ambiti non propri, soprattutto nelle materie dei cosiddetti “nuovi diritti”, con sentenze che sembrano preoccupate di esaudire desideri sempre nuovi, disancorati da ogni limite oggettivo». Fede che diviene prassi di giustizia e che perciò fa del bene al prossimo: ecco le caratteristiche spirituali di Rosario Angelo Livatino. Egli pensava, fin da laureato in diritto, al modo migliore di svolgere il ruolo di giudice. Soffriva molto nelle pronunce penali nei confronti degli imputati, perché constatava come la libertà, male interpretata, avesse infranto la regola della giustizia. E nello stesso momento in cui doveva giudicare secondo legge, si poneva da cristiano il problema del perdono. Compiendo quotidianamente un atto di affidamento totale e generoso a Dio, egli è un luminoso punto di riferimento per gli uomini e le donne di oggi e di domani, soprattutto per i giovani che, tuttora, vengono irretiti dalle sirene mafiose per una vita di violenza, di corruzione, di sopraffazione e di morte. La sua testimonianza martiriale di fede e giustizia sia seme di concordia e di pace sociale, sia emblema della necessità di sentirci ed essere fratelli tutti, e non rivali o nemici. Visitando Agrigento e altri luoghi della Sicilia, nel 1993, il mio santo predecessore Giovanni Paolo II così si espresse alla fine dell’Eucaristia celebrata nella Valle dei templi: «Che sia concordia in questa vostra terra! Concordia senza morti, senza assassinati, senza paure, senza minacce, senza vittime! Che sia concordia! Questa concordia, questa pace a cui aspira ogni popolo e ogni persona umana e ogni famiglia! Dopo tanti tempi di sofferenze avete finalmente un diritto a vivere nella pace. E questi che sono colpevoli di disturbare questa pace, questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane, devono capire, devono capire che non si permette uccidere innocenti! Dio ha detto una volta: “Non uccidere”: non può uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio!». Il buon odore di Cristo che si spande dal corpo martirizzato del giovane giudice diventi allora seme di rinascita – come già avvenuto per alcuni dei suoi sicari e mandanti, oggi sulla via della penitenza e della conversione – per tutti noi, in particolare per coloro che ancora vivono situazioni di violenza, guerre, attentati, persecuzioni per motivi etnici o religiosi, e vari soprusi contro la dignità umana. A Rosario Angelo Livatino, oggi anche attraverso la sua beatificazione, rendiamo grazie per l’esempio che ci lascia, per aver combattuto ogni giorno la buona battaglia della fede con umiltà, mitezza e misericordia. Sempre e soltanto nel nome di Cristo, senza mai abbandonare la fede e la giustizia, neppure nell’imminenza del rischio di morte. È questo il seme piantato, è questo il frutto che verrà.

IL LIBRO:
Rosario Angelo Livatino. Dal “martirio a secco” al martirio di sangu
a cura di Vincenzo Bertolone con la presentazione di Papa Francesco
(Morcelliana)

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