«La disoccupazione è un male, e quando assume certe dimensioni, può diventare una vera calamità sociale».


Così scriveva, nel 1981, Papa Giovanni Paolo II nella enciclica Laborem Exercens. Ricorreva il 90° anniversario della Rerum Novarum e nel mondo che iniziava ad avvertire gli scricchiolii della cortina di ferro e l’avvento della globalizzazione, la Chiesa s’interrogava – ed offriva suggerimenti – sui tempi che sarebbero maturati. A partire dal lavoro: ieri, in occasione del Primo Maggio, ci si è soffermati una volta ancora sul dramma occupazionale, in particolare dei giovani, acuitosi per gli effetti sociali della pandemia sanitaria. «Un problema doloroso», lo definiva già il Papa Santo, sottolineando: «Quando i giovani, dopo essersi preparati mediante un’appropriata formazione culturale, tecnica e professionale, non riescono a trovare un posto di lavoro e vedono penosamente frustrate la loro sincera volontà di lavorare e la disponibilità ad assumersi la propria responsabilità per lo sviluppo economico e sociale della comunità». Riflessioni che ritornano attuali, 40 anni dopo, in uno scenario a tinte più fosche di ieri. In tutto questo tempo sono probabilmente mancati rimedi concreti, necessari ad evitare che al periodo dell’istruzione e della formazione segua una lunga parentesi di non lavoro, foriera di un senso di oppressione che si ripercuote poi sulla qualità delle relazioni umane. E resta irrisolto – oggi come allora – un quesito fondamentale: quale prezzo – anche economico – il Paese è disposto a pagare per garantire un avvenire meno precario alle nuove generazioni?
L’interrogativo non involge solo il lavoro come mezzo di sussistenza, ma anche quanto ai suoi fini, dunque come cifra della finitezza umana e, contestualmente, come esperienza di autorealizzazione e socializzazione. L’uno non può esistere senza l’altro e ogni azione di governo dovrebbe tendere a ricercare il delicato equilibrio in grado di consentire all’homo faber di non rinunciare alla dimensione di homo ludens. Quello che invece è accaduto è stato – ed è – il disgregarsi della solidarietà sociale, con la formazione di sezioni solidamente privilegiate e di altre sempre più emarginate. Lo sfruttamento degli ultimi; la pressione dei furbi rispetto ai veri bisognosi nell’avvalersi delle prestazioni assistenziali; le ripercussioni dannose dell’inclinazione lassista a voler dare tutto a tutti sono elementi che negli anni hanno portato al sonno delle coscienze di fronte all’incapacità di fronteggiare adeguatamente il fenomeno della disoccupazione di massa, in specie giovanile, delle donne, delle persone meno vigorose e qualificate.
È questa la fonte primaria della disaffezione dalle istituzioni per cui si piange, sempre più di frequente con ipocrite lacrime di coccodrillo. Ma la diffidenza che ormai da tempo serpeggia non potrà essere vinta, neppure con i notevoli flussi del Recovery plan, se la società non mostrerà nei fatti una volontà, ferma ed inequivocabile, di ripensare se stessa, i suoi paradigmi, le sue strutture, per ricomporre le fratture esistenti e passare dal privilegio della cura del particolare alla faticosa riconquista del comune benessere.

+ Vincenzo Bertolone

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