«Se giudichi le persone, non avrai tempo per amarle».
Jole Santelli, primo presidente donna della Regione Calabria, se n’è andata a 51 anni, vinta da un male incurabile che a lungo aveva combattuto e tenuto a bada. Lascia dietro di sé il dolore e l’amarezza che seguono ad ogni morte. Ma lascia pure una grande lezione, che le parole di madre Teresa di Calcutta segnano. Per mesi, e con intensità via via crescente nelle ultime settimane, la giovane donna che con la sua scomparsa inattesa ed improvvisa ha unito senza distinzioni il popolo calabrese, era stato oggetto di ironie, accuse, attacchi. Essere sottoposti al vaglio collettivo, specialmente quando si ricoprono cariche pubbliche, è normale, anzi è indispensabile per la democrazia. Tuttavia – e questa adesso è considerazione comune – è emerso evidente come dietro quei giudizi si sia celato qualcosa di più e di diverso di un normale (per quanto spinto) esercizio di democrazia. Ora che la morte, come sempre, ha messo a nudo ogni ipocrisia, è nuda anche la verità di un (mal) costume diffuso, che tende a trasformare la critica in accanimento, la politica in chiacchiericcio, il giudizio in condanna: a seconda delle circostanze, ci si ritrova giudici degli altri o vittima dei giudizi altrui. La condanna che ne segue, che sia emessa o patita, è severa, per di più resa inappellabile dal tribunale della rete, che tutti persegue e nessuno assolve, con poche righe di motivazione. Ognuno accampa eccellenti ragioni per giudicare il prossimo: per il suo bene, affinché impari, perché cresca. Eppure, sempre più spesso, la correzione fraterna – che per definizione rifugge dalla pubblica gogna – lascia il posto all’inflessibile valutazione dei leoni da tastiera, «giudici in terra del bene e del male», come cantava De Andrè. È il sintomo, forse, di un fenomeno: servirsi degli errori altrui per rassicurarsi delle proprie qualità ed ottenere una facile dispensa dall’affrontare i problemi, personali o comunitari. «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo?», riporta Luca in un famoso brano del suo Vangelo. «Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo?», chiede Paolo a stigmatizzare il desiderio di dominio insito nell’incitare al giudizio. E ancora, nella Lettera ai Romani, ad indicare la retta via: «Cessiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; pensate invece a non esser causa d’inciampo o di scandalo al fratello». Gesù non invita a chiudere gli occhi, o a girare la testa da un’altra parte di fronte a sbagli e ingiustizie: semplicemente, chiama a prendersi cura di chi si ritiene in errore, ad avvertirlo come vero fratello. E se l’altro persevererà, allora si richiamerà alla pazienza, alla tolleranza, al perdono: in una parola, all’amore. Manca, ai tempi nostri, la capacità di essere misericordiosi e umili, in comunione, membri di una sola, grande famiglia. La Calabria che in questi giorni, commossa e in lacrime, s’è ritrovata unita davanti al feretro di Jole Santelli, rifiuti di tornare a lacerarsi e divenire – una volta ancora – terra di facile conquista di chi, come la ‘ndrangheta, nelle divisioni fiorisce. Prevalga, anche alle nostre latitudini, il monito di Martin Luther King: «Dobbiamo imparare a vivere insieme come fratelli, o periremo insieme come stolti».
+ Vincenzo Bertolone