CATANZARO – Dopo anni di sperimentazioni all’estero e in Italia insieme ad altri giovani artisti contemporanei, Maria Luigia Gioffrè, sceglie la sua terra, la Calabria e il Museo delle arti di Catanzaro, per allestire la sua prima mostra personale dal titolo “Memorie di un giardino”. L’interessante e apprezzata esposizione è stata inaugurata ieri pomeriggio al termine della conferenza stampa di presentazione, tenuta nella sala panoramica del museo, alla presenza – oltre che dell’artista – del direttore artistico del MARCA, Rocco Guglielmo, e dei curatori Gaetano Centrone e Simona Caramia. La mostra potrà essere visitata fino al 25 aprile 2020. Tra i presenti il dirigente della Provincia di Catanzaro, Gregorio De Vinci, e l’ex presidente della Provincia di Catanzaro, Enzo Bruno, al quale Rocco Guglielmo ha voluto riservare un saluto ricordando che “proprio con il presidente Bruno è iniziata questa bella avventura, il primo proficuo rapporto tra un Ente pubblico ed un Ente privato nella direzione del Museo”. “La mostra che presentiamo è in linea con l’attenzione che il Museo dedica da ormai più di tre anni a giovani artisti che hanno un rapporto con il territorio – spiega il direttore artistico -. Abbiamo creato già dal 2016 una serie di eventi legati a talenti giovani che o sono calabresi, e hanno un rapporto con la Calabria, o presentano un progetto strettamente legato al territorio, per il quale si è creata anche una linea editoriale autonoma: i quaderni del Marca, editi da Silvana editoriale e che costituiscono un fiore all’occhiello del nostro Museo. Questo progetto è in linea anche con un altro progetto partito due anni fa con la mia Fondazione – spiega ancora Guglielmo – e che si è concentrato moltissimo sulle residenze d’artista, esperienze molto fortunate dal punto di vista della ricerca. Vengono selezionati al massimo tre artisti – internazionali a giugno e italiani a settembre – i progetti sono selezionati sulla base della qualità ma anche sulla ricaduta che hanno sul territorio, vengono esposti nelle sale della permanente e quindi esposti a Bologna, oltre che pubblicati nel catalogo. Anche la mostra di Maria Luigia Gioffrè è nell’ottica della valorizzazione del territorio, l’artista si è formata non solo a Catanzaro, ma anche in Inghilterra e a Milano: ed ecco che ritorna il concetto di residenza”. Il direttore artistico Guglielmo ha spiegato ancora che quella di Maria Luigia Gioffrè “è una delle prime mostre totalmente immersive, l’allestimento costringe – in senso buono – il visitatore ad immergersi nell’opera, c’è uno stretto rapporto con il visitatore che diventa quasi un luogo di accoglienza, e si interroga come fa l’intera ricerca dell’artista su grandi temi, come quello del rapporto tra l’uomo e l’ambiente, sul ruolo dell’artista e dell’arte in genere nel periodo storico che viviamo”. La Gioffrè descrive il mondo da un punto di vista dei valori come decadente, e quindi lascia al visitatore la scelta se l’opera prefigura una speranza o sia meramente apocalittica. Come Guglielmo si è detto molto soddisfatto della mostra e dell’allestimento, anche Simona Caramia ha evidenziato la riuscita dell’esposizione di Maria Luigia Gioffré, “una artista molto giovane che ha vinto questa sfida e ci dimostra è importante la ricerca e la sperimentazione, non solo nel museo. Il Marca – spiega ancora Simona Caramia – si propone proprio come museo sperimentale nella misura in cui non accoglie soltanto l’arte che ha dei limiti strutturali, ma accoglie dei processi, ed è quello che è questa mostra, come vediamo nell’ultima opera che si intitola ‘Il giardino’”. Caramia e Gaetano Centrone si sono soffermati sui particolari della mostra, caratterizzata da una suggestione di immagini ed effetti sonori che, stanza dopo stanza, crea una trasfigurazione evocativa, un’alternanza di ritmi e stati d’animo che solo l’arte riesce a determinare. Fotografia, audiovisivo, effetti sonori si accavallano lungo il percorso trasformando lo spettatore in protagonista stesso dell’installazione. Nella prima sala è esposto un ciclo fotografico estratto da una complessa opera performativa, intitolata Purgatorio di Primavera (2018-2019) e ripartita in tre atti: Seminatrice, Eden e Preghiera. Ciascuno narra la circolarità del tempo, di una fine e di un inizio indistinto, di uomini e donne, le cui azioni appaiono sospese. Nella trilogia si percepisce una gradatio visiva, che comincia con la grevità della Seminatrice, una giovane donna nuda che semina e raccoglie piante secche; intorno a lei terra brulla e moltitudine di vasi, da cui non sboccia vita. Dalla solitudine dell’archetipica della prima donna alla pluralità dei generi; da uno scenario atemporale ad uno post-industriale: in Eden una coppia di giovani (lui e lei, fratello e sorella, amante e giovante sposa, femmina e maschio, eros e anteros), vestiti con tuniche bianche e asettiche, ricostruiscono il Giardino, all’interno di un edificio decadente. L’aporia resta tale anche in Preghiera: sulla scena c’è un’unica donna che cinge e prova a suonare un corno trovandosi in una situazione precaria, di grande instabilità. Il suo tentativo diventa così tensione e desiderio di infinito. Nella seconda sala del Museo Marca su due monitor scorrono le immagini del già citato Purgatorio di Primavera e la performance Pangea. Qui l’artista strappa le pagine di un atlante geografico, le immerge una ad una in un catino d’acqua: la carta è immersa nell’acqua e lavata più volte fino a che si deteriora completamente. Il percorso della mostra continua quindi con Il Giardino, installazione ambientale e immersiva. Il giardino – 25 tonnellate di terriccio scuro in uno spazio di 150 metri quadrati – si snoda tra le pareti del museo e si rivela attraverso suoni alle origini dell’esistenza di ognuno, pianti di neonato e musica di carillon. Un mix che diventa memoria e al tempo stesso suono dell’aridità che circonda lo spettatore. Conclude la mostra “Lettere di non corrispondenza per un vuoto permanente”: un rotolo di carillon lungo 5 metri che dall’alto arriva fino a terra. È ricoperto da segni asemantici che si fanno traccia. Una scrittura che parla nella voce ma non nella parola, gesto che non dice come nella ricerca dell’artista tedesca Irma Blank o nelle installazioni di Susan Hiller, l’artista americana e londinese d’adozione, scomparsa un anno fa. L’artista ha voluto ringraziare i curatori che “riescono a moltiplicare il senso delle opere, aggiungendone altro e a tradurre diversamente il pensiero di un artista. Ogni opera – ha concluso Maria Luigia Gioffré – nel momento in cui viene letta da qualcun’altro assume più significato e quindi diventa un moltiplicatore di senso, di meraviglia, al di fuori di ogni discorso ideologico e perciò in questo senso libero”.

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