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CATANZARO – Alfonso da grande vuole fare l’avvocato. Vuole “combattere contro i pregiudizi” e contro “una forma di preclusione mentale che ti obbliga a diventare ciò che non sei”. È calabrese, di Palmi, ma vive nel Nord-Est e mentre studia, cerca di trovare un lavoro stabile. Alfonso di cognome si chiama Gallico, ed è il figlio maggiore di Rocco Gallico, boss di ‘Ndrangheta della cosca Gallico, operante secondo quanto riportato dai giudici in più di una sentenza “nel Comune di Palmi e nel territorio compreso nella fascia tirrenica della Provincia di Reggio Calabria”. A 16 anni è finito in cella con l’accusa di “partecipazione ad associazione di tipo mafioso” e di “tentata estorsione continuata pluriaggravata dalla circostanza di più persone riunite”. Riconosciuto colpevole del reato di “tentata estorsione pluriaggravata in concorso” ai danni di un imprenditore minacciato, Alfonso ha scontato la sua pena e oggi è un uomo libero. “Avrei voluto partecipare a un concorso pubblico per operatore socio sanitario, ma mi hanno detto che serve la fedina penale pulita. […] Volevo aprire una rosticceria, ma alla camera di commercio mi hanno detto che non dovevo mai essere stato condannato. E anche nel privato, se sanno che sei pregiudicato, nel 90% dei casi non ti fanno lavorare. Ho sbagliato, ho commesso un reato e sarò per sempre escluso dalla società”. Il suo racconto è stato raccolto dal giornalista Dario Cirrincione, che oltre ad Alfonso ha intervistato altri figli di boss che stanno cercando di percorrere una strada alternativa a quella che tutti si aspettano: il crimine. Il libro “Figli dei boss – Vite in cerca di verità e riscatto” (Edizioni San Paolo, 224 pp., 17 euro) raccoglie le storie dei figli di mafia, camorra, ‘ndrangheta e della mafia pugliese con uno stile giornalistico originale, attraverso un dialogo a viso aperto con i diretti protagonisti, tutti provenienti da famiglie la cui vita è stata drammaticamente sconvolta dalla Mafia.
Una parte del volume è dedicata al progetto “Liberi di scegliere”, sviluppato dal presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, Roberto Di Bella, che in passaggio dell’intervista rilasciata a Dario Cirrincione, parlando del legame tra disoccupazione e criminalità, ha spiegato: “In Calabria è molto difficile trovare lavoro, la crisi economica qui si avverte più che altrove”. “I figli di boss hanno bisogno di una cerimonia di affiliazione ufficiale o è qualcosa che ereditano di diritto?” ha chiesto l’autore. “Dal punto di vista della percezione sociale il solo cognome incute timore – ha spiegato Di Bella – Nei piccoli paesi, dove questo tipo di cultura e queste famiglie esercitano un forte ascendente sulla popolazione, i figli dei boss incutono soggezione a scuola e in tutti gli ambiti relazionali. A me hanno raccontato di ragazzini di 11-12 anni che entrano in ristoranti, in bar o in esercizi commerciali e gli adulti si alzano per andare a salutarli. O di giovanissimi che a scuola fanno il bello e il cattivo tempo senza che nessuno li ostacoli. L’investitura la dà già il cognome”. Nel volume ci sono le storie di altri due ragazzi calabresi: S.I. di Cinquefrondi e Claudio di Sinopoli. La prefazione è stata scritta da Calogero Gaetano Paci (procuratore aggiunto di Reggio Calabria) e la postfazione da Alessandra Dino (professore associato di Sociologia della devianza all’Università di Palermo). I diritti d’autore saranno interamente devoluti in beneficenza al Centro Pio La Torre.

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