“La brezza pungente dell’Atlantico ci abbraccia di primo mattino insieme al garrire vivace dei gabbiani grandi come aironi. Sembra l’inizio di “A salty dog”, la celebre canzone dei Procolarum, invece siamo a Swansea, dove sta per cominciare la nostra avventura verso la scuola di Neath, la Ysgol Maes y Coed, una scuola speciale che ospita circa 200 disabili di età compresa tra i 7 e i 16 anni. Ci accolgono Kath e Mike. Con noi (assieme a me ci sono il professore Raffaele Micelotta, la prof.ssa Savina Moniaci e 7 studenti) anche la delegazione tedesca e quella spagnola del progetto cofinanziato dalla Commissione Europea: The Gentle Teaching Experience,The Diverse need diversity. Se state pensando alle vecchie classi differenziali o ai tristissimi istituti/ghetto siete in errore. Nella struttura circolare, costituita da grandi vetrate, neanche il grigiore di una giornata tipicamente gallese viene minimamente sofferto. Sulle pareti dei corridoi è documentata artisticamente la presenza di ogni ospite. Fotoritratti, impronte di manine immerse nella tempera colorata si srotolano insieme ad ettometri di altissima attività didattica, il tutto ben curato attraverso assemblamenti cromatici che obbediscono a un principio espositivo ben definito. Nei pressi delle aule speciali omini colorati disegnati sulle pareti scandiscono sequenze di azioni così semplici eppure così complicate per molti alunni della scuola. Nei corridoi incontriamo bambini e ragazzi di età e problematiche differenti, accompagnati dai loro docenti e da personale specializzato. Sono tutti gentili, pazienti, sempre sorridenti: siamo nel cuore del Gentle Teaching, la metodologia fondata sui quattro pilastri: Safe, Loved/Valued, Loving, Engaged, che qui viene applicata con evidente convinzione. Mike ci mostra l’intera struttura, con lui ci sono Andrew- un ragazzino Down simpaticissimo, Thomas- un ragazzone timido, altissimo, dai tratti tipicamente inglesi e Joe- un ragazzo sulla carrozzina dotata di un table parlante, i suoi occhi sono “scintille” di vivida presenza, sembra felice di stare con noi. È attratto dai nostri ragazzi che non hanno bisogni speciali come lui, ma con i quali condivide sicuramente quelli dei ragazzi della sua stessa età. Si entusiasma per la nostra visita, si agita e si allontana come un razzo con manovre precise, poi torna soddisfatto.
Entriamo quindi nelle diverse aule dove si svolgono le attività: ci sono delle Sensorial Rooms, delle aule attrezzate con apparecchiature e supporti per ogni disabilità psicofisica e sensoriale, c’ è anche una piscina all’interno, diverse Light e Dark Rooms, una Living Room dotata di cucina dove i ragazzi più autonomi imparano ad eseguire ricette, apparecchiare e riassettare, una spaziosa Main Room per le attività e gli eventi che si trasforma in aula mensa all’ora di pranzo. C’è un giardino con tante vaschette per avviare le coltivazioni e percorsi sonori all’aperto con strumenti musicali inusuali che emettono suoni simili alle campane tibetane. Giochiamo anche noi con i bimbi. Il perfetto inglese di Mike continua a illustrare ambienti e attività, mentre noi docenti del team italiano ci scambiamo sguardi di intesa. Stanno infatti per affiorare i primi interrogativi sull’adeguatezza del nostro sistema scolastico inclusivo, forse unico al mondo, fondato sull’articolo 3 della Costituzione e sul nobile principio che i disabili sono parte integrante della comunità, dunque devono stare nella scuola di tutti che si trasforma in scuola di ciascuno, una scuola, però, poco supportata sul piano delle strutture e lontana dall’accoglienza così puntuale e ‘scientifica’ di tutti i bisogni speciali. Nella Main Room ci presentiamo insieme alle ali tre delegazioni straniere costituite da alunni in situazione di handicap più o meno grave. Intoniamo l’inno di Gentle Teaching. I nostri ragazzi, con il loro modo unico, tipicamente italiano, oserei dire, calabrese, di socializzare, di stare insieme e di scherzare, polarizzano subito l’attenzione degli studenti disabili, molti dei quali iniziano a ricercare la loro compagnia durante le attività o a mensa. Sono abituati a relazionarsi con la diversità in un contesto scolastico che il nostro Istituto, grazie alle linee guide del Dirigente, prof. Domenico Servello, attentissimo al valore dell’integrazione, ha saputo creare. Nei giorni seguenti si susseguono workshop artistici, musicali e coreutici, un workshop sul linguaggio dei segni ed un role play esilarante a cura del cast gallese in cui Andrew, Joe e Thomas danno un saggio delle loro capacità comiche nella recitazione. Subito dopo un video fuori programma è una sferzata emotiva sulla pelle: un ragazzo tetraplegico della scuola viene imbragato con un sedile speciale su un surf e accompagnato sulle onde che si susseguono a ventaglio. Commovente la gioia sul suo viso che si offre agli schizzi e al vento, la stessa che vediamo in tempo reale mentre lui rivive la scena. Ma possibile che abbiamo sbagliato tutto? Anni di lotte, di seminari per sensibilizzare la gente sul concetto di diversità come valore educante per tutti, abbiamo fatto davvero il bene del disabile catapultandolo in realtà scolastiche che non sono attrezzate ad accogliere i bisogni più complessi delle disabilità gravi? Durante una videoconferenza in collegamento con un’altra scuola speciale di Kent, che adotta ufficialmente il metodo Gentle Teaching, non ci arrendiamo e chiediamo se almeno siano previsti momenti di socializzazione sistematica in scuole normali. La risposta è abbastanza vaga: loro intendono per socializzazione portare i disabili nei negozi o all’ufficio postale per migliorare l’autonomia, insomma in mezzo alla gente piuttosto che tra coetanei, a condividere quelle esperienze uniche e indimenticabili che solo la scuola può dare. L ‘ultimo giorno a Neath si apre con la cerimonia degli attestati. Poi il commiato; i ragazzi tedeschi hanno legato particolarmente con i nostri, c’è molto cuore nel salutarsi, più in là, le ultime battute di una breve e improbabile partita a ping pong tra Joe e due dei nostri. Sulla porta Andrew e Thomas ci abbracciano calorosamente, accantonando il classico selfcontrol britannico. Indimenticabili i loro ripetuti “Come back soon, please” “Nice days, come back!” Vi aspettiamo anche noi in Italia, ragazzi. Ci allontaniamo un pò tristi, conservando negli occhi, come in un fermo immagine, le loro mani che continuano a salutare. No. Non abbiamo sbagliato proprio niente.
Rachele Mesiti